Netflix con Chef’s Table, Somebody Feed Phil, Barbecue, Ugly Delicious, il magazine Giapponese Dancyu e i libri letti, ci hanno raccontato la cultura del Barbecue in Asia, e noi abbiamo deciso di dedicarle 15 giorni in
cui siamo andati alla scoperta di questa e molte altre curiosità culinarie fra Tokyo e Bangkok.
Vi racconteremo quindi quello che abbiamo assaggiato, visto ed ascoltato.

Carbone parte 1

Tokyo
Non di solo pesce crudo è fatto il Giappone, ma anche di carne, verdura e frutta che trovano probabilmente la loro massima espressione nello Yakitori, nella Tempura, nel Teppaniaki.
Il Giappone è un mix di tecniche e sapori, e attitudine, nettamente diverse da noi, ma non abbiamo assolutamente fatto fatica ad abituarci ai loro gusti.
Arrivati a Tokyo la prima cosa che si nota è un disarmante caos ordinato. Una metropoli in cui le persone si muovono in sincronia, i gesti e le parole sono calmi, il traffico è coordinato, la tradizione pervade e la
tecnologia, come la modernità, trovano spazio senza invadenza.
I ristoranti presentano all’esterno i menù, ricchi di ideogrammi e senza traduzione linguistica, se non attraverso le rappresentazioni assolutamente identiche del cibo che aiutano anche i più confusi. L’arte del
sampuru, infatti, consiste nella riproduzione di duplicati esatti delle pietanze, vengono esposti nelle vetrine dei ristoranti e non sono stati pensati, ironicamente, per aiutare ai turisti, bensì perché si dice che un giapponese che si rispetti voglia che sia il pasto che mangerà ad assomigliare come una goccia d’acqua alla sua riproduzione.
Quello in cui ci siamo riconosciuti di più è la modalità con cui il giapponese vive la tavola: qui non esiste il concetto di primo piatto, secondo, contorno, ma viene portato tutto in tavola contemporaneamente senza un ordine preciso, è una cucina conviviale, ed in casa la cottura delle pietanze è con un fornello che viene portato direttamente a tavola da cui ci si serve autonomamente.
Inoltre la cucina giapponese è molto attenta alla varietà dei gusti, dei colori e delle forme di preparazione e della scelta precisa degli ingredienti.
I metodi di cottura della cucina giapponese sono cinque:
Mushimono, la cottura al vapore in cui si usano cestelli di bambù, rispettosa e naturale. Nabenno, una cottura istantanea, solitamente si tratta di cibi cotti dalla persona che li mangia in appositi pentolini posti sui fornelletti.

Nabemono, la cottura lenta e prolungata che esalta il sapore delle preparazioni, il risultato della pietanza è
simile ai nostri stufati.
Ogenomo, la frittura, in cui l. velocità, il fuoco molto alto, la leggerezza, l’olio bollente ed il taglio minuzioso ed uniforme degli ingredienti sono le costanti fondamentali.
L’esempio emblematico della frittura giapponese è la tempura: la pastella è composta da due ingredienti, farina di riso e acqua frizzante e ghiacciata. La peculiarità è la sua leggerezza e i motivi sono da ricondursi alle bollicine di gas nell’acqua e la sua temperatura, che a contatto con l’olio bollente creeranno uno shock termico, la cottura sarà breve e formerà una sigillatura impermeabile e naturale intorno ai cibi.
La frittura include anche un’altra leccornia giapponese, il tonkatsu, una gustosa cotoletta di carne.
In origine era carne di manzo, oggi si utilizza il maiale, precisamente il filetto o la lonza, viene condita con sale e pepe prima di essere infarinata ed immersa nell’uovo sbattuto, poi ricoperta di panko, ed infine fritta. Le varianti sono molteplici, noi ne abbiamo provato due versioni nel quartiere di Ginza: una era la semplice cotoletta tagliata in pezzi servita insieme a cavolo cappuccio e zuppa di miso, l’altra, un sandwich chiamato katsu sando, in cui la cotoletta veniva usata come ripieno e servita spalmata di curry giapponese (il katsukarē composto prevalentemente da coriandolo, cumino, curcuma, cardamomo e pepe nero).
Yakimono, la cottura alla griglia. La carne e il pesce vengono frequentemente cotti su di un hibachi (dal giapponese ‘ciotola del fuoco’) o su una piastra arroventata, e si utilizza il Binchōtan (o carbone bianco o binchō-zumi), un carbone vegetale derivante dalla quercia che raggiunge temperature molto alte in tempi brevi, la cottura quindi è estremamente veloce.
Come in altri bracieri, il carbone viene sparso su uno strato di cenere e per gestire il carbone si utilizzano un paio di bacchette di metallo, chiamate hibashi.
Le preparazioni più comuni in cui si utilizza sono lo yakitori, spiedini di pezzetti di pollo o di frattaglie infilzati su spiedini di bambù e grigliati, glassati con la salsa tare, composta da sakè, salsa di soia, mirin e zucchero.
Per provare questa specialità siamo stati da Toriyoshi, un posto intimo e tipico e noto per la preparazione degli yakitori. Lì abbiamo assaggiato anche frutta, verdura, e delle deliziose varianti di spiedini con radice di loto, ginko biloba (in cucina viene usata la parte legnosa dei semi, hanno la forma di una nocciola ed il sapore farinoso di una patata, una delizia), e molto altro. Tokyo ci ha stupiti.
La delicatezza di questo popolo trova contrasto in una cucina in cui il fritto ed i sapori grassi sono molto presenti, ma vengono sempre bilanciati da preparazioni agropiccanti, amare, erbacee e riso.
E per quanto riguarda la nostra ‘fede’ da grillers, abbiamo notato che il profumo di brace, principio storico dell’arte culinaria giapponese, è delicato e mai invasivo.
C’è sempre molto da imparare, qui per esempio che l’ostentazione dei gusti non è mai necessaria per dare identità al cibo.

Carbone, parte 2
Bangkok
Ad accoglierci all’aeroporto c’era un caldo umido e afoso, profumi dolciastri ma acri che ci hanno però messo fame ed allegria.
Soggiornavamo, non a caso, nella zona dei templi, vicino al fiume, in cui si trova la parte più antica della città. Una zona forse un po’ trascurata ma davvero affascinante, ricchissima di banchetti di cibo lungo strada.
Qui si cuoce sul wok e su un fuoco a fiamma più che viva. E’una cucina veloce, espressa, fatta di gesti rapidi e compulsivi, e per fame e curiosità ci siamo avventurati per assaggiare il nostro primo vero e tipico Pad Thai.
Ogni guida che si legga dichiara apertamente che in Thailandia il cibo è parte integrante della cultura, non si chiede come stai? ma hai mangiato?, e basti pensare alla moltitudine e varietà di ristoranti, alla concezione dello street food, al prezzo delle pietanze, per arrivare alla conclusione che le persone qui mangino più fra le bancarelle che a casa.
La brace è il metodo di cottura più diffuso, il motivo è che la reperibilità del combustibile che utilizzano sia davvero semplice, si tratta del cocco.
In Thailandia, le popolazioni rurali fanno largo uso di carbone di legna per cucinare, perché ha un potere calorifico doppio rispetto alla legna da ardere.
Il carbone viene realizzato con la parte legnosa, che, riscaldandola in uno spazio non aerato ad alta temperatura, non brucia, ma si trasforma in carbone, e le carbonaie sono uno dei molti tipi di piccole
‘imprese’ nei villaggi della Thailandia che contribuiscono a mantenere l’economia della comunità.
La pianta del cocco nel Paese, essendo estremamente facile da reperire, viene sfruttata in tutte le sue parti:
per cuocere, per cucinare, a scopo estetico e salutistico.
In cucina, ad esempio, l’utilizzo è iniziato per esigenza, e si mantiene oggi perché identifica e caratterizza la
cucina thailandese, il carbone che viene utilizzato ha infatti sentori delicati, ma inconfondibili.
Una grande cultrice della cottura con la fiamma viva del carbone è Raan Jay Fai. Lei cucina sul fuoco perché per lei “non c’è niente di meglio”, testuali parole.
Dopo una fila di quattro ore e mezza e uno studio cavilloso di questo particolare soggetto e del perché la Michelin le abbia attribuito una Stella, siamo stati da lei e abbiamo assaggiato la sua cucina di strada e i suoi piatti, fra cui l’arcinota omelette di granchio.
Inutile dire che, nonostante il tempo di attesa e il suo non essere per nulla ‘cheap’ rispetto a tutto il resto della ristorazione di Bangkok, sia stata una delle esperienze che consiglieremmo a chiunque.

Lavora solo con grandi wok che appoggia sul charcoal oven, il vaso su cui cucina e in cui usa un carbone derivante appunto dai gusci di cocco, utilizza solo prodotti freschi che sceglie accuratamente ogni giorno, ed è da sola, un’esemplare donna tenace che ha fatto di necessità virtù, diventando la migliore del suo Paese con pochi, semplici ma grintosi ed equilibrati piatti.
Dopo una full immersion fra gli ambulanti che offrono cibo cinese, thailandese, junk food, ci siamo iscritti ad un corso di cucina.
Abbiamo lavorato con le spezie, il pesce, il riso, ci siamo divertiti con un gruppo di coreani, tedeschi, francesi e cinesi e, dopo un lungo ed interessante tour al mercato cittadino, insieme abbiamo imparato a
fare la Thai Papaya Salad, gli Stir-fried noodles con i gamberi, il famoso e tipico Sticky rice con mango e la tanto attesa pasta di curry rosso con il pollo.
L’utilizzo di alcune erbe e spezie contraddistingue e caratterizza nettamente la cucina thai: la galanga, una pianta erbacea di cui si usa il suo rizoma in cucina, regala un odore pungente ma un sapore dolce, il lemongrass, o citronella, di cui si usano il gambo e il bulbo, ha un profumo agrumato ma il sapore ricorda il limone senza la sua naturale acidità. Si aggiungono i classici scalogno, aglio, cumino, passando al coriandolo di cui si usano le foglie fresche tritate che conferiscono ai cibi un sapore amaro e leggermente piccante, una curiosità a riguardo, il nome ‘coriandolo’ deriva dal greco koris, che significa cimice, per il fatto che la pianta fresca ha un odore molto forte e che ricorda proprio le cimici verdi; il kaffir lime, thai lime o combava,  è una pianta della famiglia degli agrumi, nella cucina thai, vietnamita, indonesiana si utilizzano il succo del frutto, le foglie e la buccia, ricca di oli essenziali, hanno e regalano un sapore fresco, ma acido ed aspro alle preparazioni.
La cucina thailandese racchiude in sé gli aspetti fondamentali della cultura del Paese. Ogni piatto è preparato, come abbiamo appena descritto, con gli ingredienti freschi locali, e il tutto ruota attorno a quattro sapori fondamentali: piccante, dolce, salato, aspro.
Un’altra specialità sono gli spiedini di pesce (gamberi e calamari), carne (pollo, agnello, capra, manzo) o verdura. La particolarità di questa preparazione è nella speciale marinatura, che ha una consistenza densa e
cremosa e che avvolge la carne rendendola tenera, morbida e molto gustosa.
I sapori predominanti della salsa satay, infatti, sono quelli del latte di cocco e del burro di arachidi, e una nota speziata e una acidula data dalla presenza del lime. La Thailandia, il Paese del Sorriso e dello street food, ci ha affascinati con il suo essere agrodolce, piccante e colorata.

Prossimo viaggio? I piccanti Paesi Sudamericani.. #staytuned

Credits: Copywriter Serena Granziera